06 ottobre, 2011

Shape Of Despair, Angels Of Distress (2001)


  1. Fallen - 06:09
  2. Angels Of Distress - 09:43
  3. Quiet These Paintings Are - 14:39
  4. To Live For My Death - 17:21
  5. Night's Dew - 06:59

Jarno Salomaa - Chitarra lead, synth
Tomi Ullgren - Basso, chitarra ritmica
Natalie Koskinen - Voce
Samu Ruotsalainen - Batteria
Pasi Koskinen - Voce
Toni Reahalme - Violino

C'è un motivo, anzi, ben più di uno, se questo è il lavoro più apprezzato dei finnici Shape Of Despair. Si potrebbe iniziare parlando dell’evoluzione stilistica, tanto diversa da sembrare frutto di altre menti, e che non ha quindi niente in comune con precedente Shades Of. Ma non v'è da allarmarsi. Quei soffusi e ampi tappeti melodici, dall'architettura laboriosa e solenne, che si affacciano alla mente dell'ascoltatore senza penalizzare nessuna sfaccettatura, sono sempre presenti, con la differenza che che questa volta accantonano l'idea dell'atmosfera onirica e cullante, con i suoi flauti e rumori di fondo, e virano verso il lido della malinconia, quella densa e senza via di uscita.


Sì, malinocina, sentimento che sembra aver ossessionato fino ai margini del suicidio i compositori di questo album durante la sua stesura, perché solo così si spiega come sia stato possibile tradurre in musica una tale disperazione, che riesce praticamente a trascendere quest’ultima.

Ma ora avviciniamoci meglio alla comprensione del disco con un track by track tecnico.
Il Disco si apre con Fallen, considerabile in tutto e per tutto l’intro dell’album, forse per la quasi assenza delle parti vocali, che si limitano a scandire due frasi alla fine. Cori femminili e violini in lontananza soffondono ogli luce che poteva essersi creata nella testa, e generano un nero vortice di rassegnazione, fino all’arrivo della conclusione prima citata, che sembra avere la catartica intenzione di emergere da questa spire confusa ed oscura.

Parte così la titletrack, Angels Of Distress, con il suo intro che coglie alla sprovvista, ma non troppo, edificato un giro la cui semplicità è artefice della malinconia vera e propria, che qua ha modo di iniziare. La simbiosi tra chitarra e violino, evidentemente messi in primo piano, tessisce una camicia di forza sul povero corpo dell'ascoltatore, che non avrà in nessun caso l'intenzione di liberarsene. La canzone viaggia su una struttura che alterna i picchi di potenza in cui operano tutti gli strumenti a preludi melodici, in cui synth fanno da padrone. Ad ornare etrambi gli shcemi ci pensano i chours già sentiti precedentemente, che insieme ad un batteria nichilista e ad un basso apparentemente dietro le quinte, impegnati a scandire con precisione quasi inquietante e lungendo da ogni sorta di virtuosismo, generano una dolcezza così tenebrosa da desiderare che finisca subito, ma anche mai.

Prosegue a ruota la terza traccia, Quiet These Paintigs Are, aperta da un intro pittoresco e decadente come pochi, che con la sua goticità, sapientemente privata del pacchiano che essa troppo spesso suole avere, sembra voler visualizzare una funerea danza di spettri, isolati da tutto il resto.  La sua conclusione è elegante, che va sovrapponendosi al fade-in della traccia vera e propria, anch’essa lavorata su un solo riff basilare, sempre di quelli che Allegria Portami Via. È In questa traccia che si ha il rapporto voce-strumenti migliore in tutto il disco. Forse, dovuto alla struttura tipica con strofa e ritornello, che in questa traccia è lontanamente percettibile, anche se così lento e trascinato da fondersi inesorabilmente un tutt’uno. La traccia prosegue con la stessa struttura alternata di quella precedente, per poi terminare con un breve, soave lamento della chitarra lead, in modo brusco, inaspettato.

Tale finale sarà necessario per presentare la successiva traccia, To Live For My Death, anch’essa dotata di un’intro lungo e dolcemente triste, composto da violini che sembrano lacrimare le note che scandiscono. Qua è presente il lavoro più consistente della cantante, autrice dei cori citati più volte in precedenza, che con un breve passaggio si impadronirà dell’ascoltatore preannunciando la potenza del riecheggiante, funesto, monolitico baratro vocale del cantante, che irromperà subito dopo, disintegrando ogni eventuale appiglio separatore dalla voragine di disperazione, per poi lasciare proseguire la canzone su due lenti e trascinati giri, che si susseguono a rotazione, comunque necessari data la carente presenza dei vari stacchi melodici messi qua e là nelle due precedenti tracce. La traccia terminerà accompagnata dall'ormai familiare violino, fattosi ancor più struggente e lamentoso, nonostante ciò paia impossibile.

Si passa così all’ultima traccia, Night’s Dew. Interamente strumentale, più corta e “veloceˮ delle altre, che racconta melodie imponenti in modo leggiadro, simboleggianti una sorta di rinascita da tutto quello che è stato prima. Anche la sua forma, non più miscelata come l'orizzonte invernale tra mare e cielo, ma delineata, scandita, percettibile anche per un comune mortale, aiuta a ritrovare un motivo per cui capacitarsi che tutto è passato.
Al risveglio, ci si ritrova emotivamente modificati, Se non resettati. Ogni ipotetico pensiero, emozione, viene ridotto in polvere e al suo posto, un immenso volteggio di figure angeliche che angosciano e avvolgono con gentilezza, prendono il totale sopravvento. E con una durata che seppur veloce pare eterna, sempre con la stessa gentilezza, dicono addio e rinnovano l'animo.

E dopo un attimo, ci si capacita di aver ascoltato un disco degli Shape Of Despair.

98/100

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