09 ottobre, 2011

Lunar Aurora, Andacht (2007)


  1. Glück - 11:09
  2. Geisterschiff - 07:53
  3. Dunkler Mann - 08:39
  4. Findling - 09:44
  5. Der Pakt - 07:56
  6. Das Ende - 08:38

Aran - Chitarra, synth, voce
Sindar - Basso, synth, voce, programming
Skoarth - Chitarra

Stabilitisi alla Cold Dimension Records, questi lugubri mangiacrauti si sono posti un quesito: come suonare il black metal arricchendolo in modo sfarzoso e malvagio, rispettandone la canonicità? Come un ciclone in un villaggio pacifico, la risposta giunse travolgente.E venne chiamata Andacht.


In tanti provano a fare quel black metal un po' così, cattivo, a tirata unica, ma che vorrebbe essere anche essere avvolgente ed atmosferico (o anche il contrario, certamente). Ma mai nessuno riesce a creare una commistione come quella plasmata dai Lunar Aurora: qua trovano alloggio i riffoni affilati della scuola norvegese, gli incubi, l'evil-attitude con la faccia dipinta, l'oscurità di ambienti arcani, i testi poetici, sadici, visionari. Un saggio su come la cattiveria della mente possa segare le gambe come una gigantesca lama a tutto ciò che vede.

Un opening soffuso. Vento ululante, la terra scavata da pale e confusi canti gregoriani in lontananza accoglieranno la coppia d'asce lanciatasi in uno di quei giri la cui semplicità è artefice del gelo e della cattiveria palpabile. L'insieme appare come un predatore melanconico e affamato, che aggredisce e rimugina; facili sono gli abbandoni ad un ambient ricco di campionature di ogni genere, che siano, perché no, miscelate con i riffoni prima citati, creando una quintessenza di quello che i Nostri vogliono trasmettere, tra blast beat incessanti, parlati spazientiti e suoni ignoti.
Dalla seconda traccia si permettono di rallentare e di essere prevalentemente riflessivi. I riff abbandonano la posizione di attacco. Da qui è tutto un susseguirsi di momenti carichi che fanno andare su e giù la testa come in preda alla peggio schizofrenia a parti dai suoni provenienti un po' da ovunque. Battiti sordi, scricchiolii, violini, suoni temporaleschi, rumori metallici, respiri affannosi, urli, carne e ossa disintegrate. Le chitarre che tornano spesso a sottolineare quanto sappiano essere dilanianti con altre cavalcate aggressive. Trova spazio anche qualche momento non opprimente, come il ritornello di Findling. Poi un ritorno dei canti gregoriani in Der Pakt, altre urla, altro vento ululante. Tutto appare disegnato su carta millimetrata, presente in quel momento determinato per un motivo.
Dalla penultima traccia si odono echi di xilofoni e lo scream si fa più acuto, quasi tratto dal depressive, ogni tanto accompagnato da un growl furente, fino a ché tutto ha fine con un fade out.

Ciò che è paragonabile a questo album è il freddo. Incessante, cattivo, doloroso, senza via di fuga. Un viaggio onirico in tutto ciò che è così tetro e sconfortante da essere attraente. Impossibile restare indifferenti durante la riproduzione di una simile opera, specie se così spiccante in un calderone ormai fine a se stesso.

84/100

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